Panni

Posto ai confini tra Puglia e Campania in provincia di Foggia, Panni è un piccolo paese situato sopra un alto monte. Per accedervi bisogna percorrere una strada di circa 7 Km., che dalla statale 90 tra curve e tornanti si inerpica in salita fino a raggiungere gli 801 m. sul livello del mare.

Costruito originariamente sulla spianata di un monte, denominata Toppolo per via della sua ubicazione elevata, il suo assetto abitativo nel tempo è andato via via ad interessare non solo l’intero pendio sud della montagna, che gli dà ricetto, Monte Sario, ma anche i piedi e la fiancata del monte posto di fronte, il Piano e Monte Calvario.

Visto frontalmente il paese si mo... Visto frontalmente il paese si mostra spaccato in due parti, diviso dal corso Vittorio Emanuele II, da cui lateralmente si diparte un dedalo di strade, vie e viuzze e che congiunge il nuovo all’antico agglomerato, un tempo delimitato dalla cinta muraria. Nella parte alta del paese, quasi al centro di una cresta rocciosa, si trova un rudere di torre, impropriamente detto dai locali Castello ai lati e ai piedi del quale, sui versanti ovest ed est, sono state ricavate due strade parallele, che costituiscono, per diletto e svago di chi le frequenta, le passeggiate a favonio e a bora, così dette dal vento, che vi spira.

Lungo le numerose e strette strade dell’abitato si snodano le case, un tempo abitate per lo più dalle classi inferiori degli artigiani e dei contadini, caratterizzate dalla semplicità e uniformità nell’uso del colore (bianco calce) e del materiale di costruzione (la pietra locale). Poche sono, invece, le dimore gentilizie, che ostentano la loro eleganza negli artistici elementi architettonici in pietra lavorata. Tutte si trovano nel centro storico del paese nelle immediate vicinanze della Chiesa madre.

Per le sue origini agro-pastorali e per il richiamo nel nome al mitologico dio Pan, protettore dei pastori e degli armenti, l’emblema del paese è rappresentato da una figura antropomorfa con le zampe caprine posta su di un cane e con uno zufolo in mano.

Posto ai confini tra Puglia e Campania in provincia di Foggia, Panni è un piccolo paese situato sopra un alto monte. Per accedervi bisogna percorrere una strada di circa 7 Km., che dalla statale 90 tra curve e tornanti si inerpica in salita fino a raggiungere gli 801 m. sul livello del mare. A ben guardare la documentazione d’archivio, si scorgono molti riferimenti relativi all’andamento demografico del paese. La popolazione nel 1532 era di 70 famiglie; nel 1595 di 150 e nel 1664 dopo la devastante peste del 1656 si ridusse a 75 nuclei familiari. Successivamente il numero dei residenti passò dai 1500 cives ai 2500 abitanti della fine del ‘700, fino ad arrivare alle 3000 anime nel 1820, a crescere con punta massima di 5051 nel 1911, per poi scendere vertiginosamente dagli anni ’50 in poi a causa delle emigrazioni a scopo lavorativo verso le Americhe e le zone industriali interne dell’Italia, riducendosi fino al numero di 858 nei dati del censimento del 2011 per arrivare allo stato attuale delle 749 unità.

In prossimità delle ferie di agosto di ogni anno l’amministrazione comunale prov- vede all’organizzazione dei festeggiamenti, da tenersi rispettivamente il 26 e il 27 agosto, in onore dei suoi santi protettori, S. Costanzo martire e Maria SS Incoronata del Bosco. Del santo in paese si venera una reliquia, sistemata in un braccio- reliquiario d’argento, autenticata soltanto il 4 giugno 1918 dal vescovo Uberto Maria Fiodo, che in occasione di una santa visita si preoccupò degli accertamenti del caso. Allo stato attuale nulla sappiamo della sua origine: le fonti locali tacciono. Sebbene sia più documentato, il culto mariano è legato ad un evento misto di leggenda. Per il rinvenimento della statua lignea della Vergine con Bambino su un albero nel vicino bosco, da cui l’appellativo dato alla Madonna, il feudatario dell’epoca nel 1503 fece erigere una chiesa con convento annesso per gli eremiti di Sant’Agostino, che vi dimorarono soltanto per un secolo.

In segno di ringraziamento verso i suoi santi patroni per la raccolta del grano, la comunità di Panni in coincidenza con la celebrazione dell’Assunta, il 15 agosto di ogni anno rievoca la festa delle spighe, altrimenti detta delle salme. Un tempo il prodotto ricavato dalla mietitura e raccolto nei giorni della trebbiatura si vendeva all’asta pubblica per andare a finanziare le spese delle feste patronali secondo le intenzioni degli offerenti per l’uno o l’altro patrono. Di questo oggi resta solo la rievocazione storica e religiosa.

Alfonso Rainone

La zampogna di Panni

Posto ai confini tra Puglia e Campania in provincia di Foggia, Panni è un piccolo paese che a causa del continuo fenomeno dello spopolamento conta a tutt’oggi poco più di 700 anime. E’ situato sopra un alto monte del Subappennino Dauno meridionale, che per accedervi bisogna percorrere una strada di circa 7 Km., che si inerpica fino a raggiungere gli 801 metri sul livello del mare.

Per le sue origini agro-pastorali e per il richiamo nel nome al mitologico dio Pan, lo stemma del paese è rappresentato proprio da questa divinità, protettore dei pastori e degli armenti. Tra le tante cose a cui il suo nome è legato vi è un singolare strumento musicale unico nel suo genere sia per l’uso (locale e circoscritto al periodo natalizio) sia per la sua costituzione. Si tratta dell’ormai nota zampogna di Panni, composta da un otre ricavato dalla pelle di un agnello, a cui sono collegate direttamente due canne attraverso le zampe anteriori dell’animale; ha un solo chanter ed un lungo bordone staccato con alla sommità una zucca essiccata e svuotata. Un tempo i pastori-contadini di Panni si riunivano quindici/venti giorni prima della festività del Natale, per costruirla e poi suonarla in gruppo nel periodo natalizio nei tre giorni della Vigilia, di Natale e dell’Epifania.

Alfonso Rainone

Festa delle spighe

A Panni in coincidenza con la celebrazione dell’Assunta, il 15 agosto di ogni anno si celebra la festa delle spighe, altrimenti detta delle salme, giornata in cui la comunità ringrazia i santi patroni, Maria SS del Bosco e S. Costanzo Martire, per la raccolta del grano.

A ricordo di questa tradiz...

A ricordo di questa tradizione della cultura contadina già da qualche anno alle prime ore della mattina nella parte bassa del paese si svolge una rappresentazione dal vivo degli antichi mestieri un tempo in uso nella comunità, insieme ad una dimostrazione pratica, a cura di alcuni giovani del luogo, di come avveniva la mietitura del grano. Per rievocare l’antica usanza di donare parte del raccolto ai Santi Patroni lungo le vie del paese si compie una sfilata di persone, asini, muli, carri e carretti carichi di covoni e mazzetti di spighe di grano che, dopo aver raggiunto lo spazio antistante la chiesa madre per la benedizione, chiude la manifestazione. In testa al corteo un manipolo di cavalli con i loro cavalieri dà luogo ad una elegante cavalcata.

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Di questa tradizione, le cronache locali così raccontano.

Il giorno 6 luglio, ricorrendo un‘altra festività della Madonna in ricordo di una calamità scampata, gli amministratori della festa, eletti ogni anno dalla giunta comunale, mandavano una persona al Santuario del Bosco, al fine di far tagliare due querce nel boschetto, da mettere poi nel bel mezzo di una zona del paese, denominata Piano, fra le tante aie preparate per la trebbiatura, una a poca distanza dalla cappella di S. Vito e l’altra poco discosta dal paese. In cima ad ognuna veniva posta una bandiera: bianca per la quercia della Madonna e rossa per quella di San Costanzo. Ad entrambe tra i rami venivano legate pure delle biche di grano a formare due mete.
Nei giorni di trebbia, i membri del comitato feste andavano per le diverse aie a raccogliere i donativi in covoni, portandoli secondo l’intenzione degli offerenti o alla quercia della Madonna o a quella di San Costanzo. Quest’operazione veniva fatta pure per le aie di campagna e quanto si ritirava, recava sopra la bandierina rossa o quella bianca.

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Capitava che il giorno del 15 agosto gli agricoltori più abbienti, poiché raccoglievano molte più messi, invece di offrire il donativo di qualche covone, elargissero some intere. Per costumanza avveniva che l’intero carico sistemato su animali e carri attraversava il paese, facendo bella mostra del donativo.
Le some, chiamate in dialetto salme, prendevano le mosse dal Piano, luogo della raccolta, precedute da un tamburo e dal suono della campana della chiesa. Ognuna come contrassegno recava in cima l’immagine del santo a cui era destinata l’offerta. Tutte erano accompagnate da un gruppetto di persone: chi guidava la bestia per le redini, chi le teneva la coda o le stava in groppa, chi guidava un carretto con il carico da donare. Salivano in paese per la strada d’occidente e, una volta giunte nei pressi della chiesa parrocchiale, ne ricevevano la benedizione e, scendendo poi per corso Margherita e corso Vittorio Emanuele II, arrivavano alle due querce, dove avveniva lo scarico delle some in base al contrassegno, parte a quella della Madonna, parte a quella di San Costanzo.

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Finita la raccolta dei covoni, anche gli scarti della trebbiatura erano per i santi. Concorrevano molti fedeli con le proprie braccia, altri con buoi e muli, tutti gratuitamente.
Il frumento ricavato si vendeva all’asta pubblica, che andava a onorare i debiti delle spese delle feste patronali: 24 giugno, 6 luglio, 26 e 27 agosto.

Alfonso Rainone

Curiosità su Panni

Tradizioni Quaresimali

A Panni un’antica tradizione - comune a numerose località meridionali - voleva che, terminato il periodo di Carnevale e bruciato il suo simbolo, dal giorno delle Ceneri si esponesse alla vista di tutta la comunità la sua vedova, la Quarandan’, una pupa di pezza vestita a lutto, il cui nome ricordava i quaranta giorni della Quaresima.

A ricordo di questa tradizione della cultura contadina già da qualche anno alle prime ore della mattina nella parte bassa del paese si svolge una rappresentazione dal vivo degli antichi mestieri un tempo in uso nella comunità, insieme ad una dimostrazione pratica, a cura di alcuni giovani del luogo, di come avveniva la mietitura del grano. Per rievocare l’antica usanza di donare parte del raccolto ai Santi Patroni lungo le vie del paese si compie una sfilata di persone, asini, muli, carri e carretti carichi di covoni e mazzetti di spighe di grano che, dopo aver raggiunto lo spazio antistante la chiesa madre per la benedizione, chiude la manifestazione. In testa al corteo un manipolo di cavalli con i loro cavalieri dà luogo ad una elegante cavalcata.

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Sospesa ad una corda o ad un filo di ferro teso tra due balconi o due finestre nei luoghi più frequentati, la Quarantana portava all’estremità inferiore sotto la lunga veste nera una patata pendente a cui erano infilzate tante penne scure (colore liturgico della penitenza) quante sono le domeniche di Quaresima, e una sola penna bianca (colore della purezza) per la domenica di Pasqua. Nel loro numero (sette) le penne richiamavano le opere di misericordia corporale e spirituale, che la chiesa in questo periodo raccomandava di seguire. Ogni domenica si strappava e si portava via dalla Quarantana una penna nera, finché rimaneva quella bianca, riservata alla domenica di Resurrezione, quando, estratto l'ultimo elemento, la pupazza spennata veniva bruciata o data ai bambini, che la trascinavano via distruggendola, felici della fine della Quaresima.


A Panni per un’altra antica tradizione nel periodo della Settimana Santa in sostituzione del suono delle campane, legate in segno di lutto per la morte di Gesù Cristo, gli eventi liturgici e paraliturgici venivano scanditi dall'andamento ritmico di rudimentali strumenti in legno dal suono tutt’altro che gradevole. In paese ve ne erano di due tipi: la tacqul’ e lu trec’n’, affidati solitamente durante le precessioni del Giovedì e del Venerdì Santo all’esuberanza dei più giovani della comunità, che li suonavano con forza in maniera ossessiva e monotona, a rievocare il fragore della terra su cui scesero le tenebre con la morte del Figlio di Dio.

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Alfonso Rainone

Peppe De’ Furia

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Tra i personaggi di Panni che si sono distinti per le loro azioni fin oltre i confini municipali, assurgendo agli onori della storia, è da ricordare il famigerato Giuseppe de’ Furia. Costui nel periodo dell’occupazione francese del 1799 è tra quelli che a Panni senza paura manifesta la sua posizione ideologica: con spavalderia indossa la coccarda rossa borbonica e opera molte prodezze contro "quell’infame Repubblica".

Nel periodo del decennio francese per osteggiare il nuovo governo, si dà alla macchia, componendo una banda a tutti gli effetti, che prende stanza tra i boschi impenetrabili del vallo di Bovino, passo obbligato per il transito delle diligenze. Qui svaligia i procacci dello stato, aggredendo passeggeri e corrieri postali. Non dà tregua ai padroni, ricattandoli e saccheggiando le loro masserie.
Per questo motivo per il Distretto di Bovino, dove la situazione dell’ordine pubblico si presenta piuttosto grave, vengono arruolati molti individui di fiducia, bene armati, impegnati nella caccia ai disertori, le cui case sono piantonate e all’occorrenza sottoposte a perquisizione. Su Giuseppe e suo figlio Domenico è posta una consistente taglia, in quanto segnalati capi della stessa comitiva.

Terminata l’esperienza del governo francese, Ferdinando IV, ritornato sul trono di Napoli, emette subito un decreto d’indulto, con cui abolisce l’azione penale per i fatti commessi contro il passato governo e condona le pene già comminate.
Nel giugno del 1815 Giuseppe de Furia e i suoi compagni si costituiscono ed essendosi proclamati difensori del re chiedono amnistia e protezione.
L’intera masnada viene convocata a Napoli davanti alla commissione militare, dove quale benemerita della corona, ottiene anche l’incorporazione nell’armata dei fucilieri a guardia del Vallo di Bovino sotto il comando di Giuseppe di Furia.

La speciale riabilitazione del de Furia per alcuni è motivo di scandalo.
Padre e figlio con coraggio offrono i loro servizi al nuovo governo, perseguitando i delinquenti, dei quali si attirano la forte avversione, e comparendo davanti al giudice di pace per denunciare i loro misfatti. Inizia così una lunga serie di azioni persecutorie nei confronti della novella squadriglia.
Nel frattempo alcuni componenti della squadriglia dopo pochi mesi, “in mancanza del promesso soldo” abbandonano il servizio.
Frattanto nel mese di agosto in un agguato viene assassinato da alcuni suoi ex compagni il figlio Domenico. Infuriato, minaccia pesanti punizioni agli autori dell’omicidio.
Il 27 ottobre di quello stesso anno Giuseppe de Furia si reca a Napoli in udienza dal re, per risolvere di persona la fin troppo grave questione della custodia del vallo di Bovino. Qui, dopo tre giorni di attesa il Consiglio di Stato, riunito in seduta straordinaria, delibera l’arresto dell’intera squadriglia.
La condanna di Giuseppe de Furia è la perpetua detenzione, che vien espiata fino alla morte nell’isola di Ustica, dopo tre anni di lungo peregrinare nelle carceri del Regno: Vicaria, Castelcapuano, Santo Stefano e Pantelleria.

Alfonso Rainone

"Contadino e Scultore"

La vicenda artistica di zi' Antonio Liscio
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Chi non ricorda zio Antonio Liscio, il contadino artista dall’aspetto burbero e dalla creatività istintiva, che senza una formazione scolastica aveva decorato in età matura il soffitto della sua casa di campagna con coloratissime scese sacre, prese dalla pietà popolare, e aveva scolpito nel legno statue di madonne, angeli, santi, a grandezza quasi naturale e a mezzo busto dalle fattezze primordiali, realizzate con uno stile semplice e colori vivaci?
Chi, passando davanti alla sua piccola tenuta di campagna sulla strada Limitoni o andandoci a bella posta, non si è soffermato a curiosare con ammirazione e a volte con disapprovazione i suoi manufatti, soprattutto quelli che facevano bella vista di sé sistemati a gruppi scenici (natività, annunciazione, madonne, santi con bambini e putti) sui rami di alberi all’entrata del suo pezzo di terra?

Sebbene fosse portatore di una menomazione al braccio sinistro, zio Antonio per la sua profonda devozione amava scolpire nel legno immagini sacre, a cui poi dava vivacissime pennellate di smalto acrilico per abbellirle, vivacizzarle e preservarle dalle intemperie. La passione gli era nata - come lui stesso diceva - all’improvviso all’età di cinquantanove anni e traeva ispirazione dall’iconografia popolare locale, quella delle immaginette sacre, le cui preghiere, riportare sul retro, l’artista contadino prima dell’esecuzione dell’opera imparava e recitava a memoria, come se la ripetizione cantilenante di quelle orazioni facesse da stimolo al suo estro creativo e lo guidasse nell’impresa. “Prima imparo la preghiera e poi faccio la statua” teneva a far saper zio Antonio.
E come se ciò non bastasse, zio Antonio dava un senso ulteriore a questo suo lavoro: nei campi e sugli alberi della sua proprietà ostentava le statue che realizzava, affinché chiunque nel vederle potesse concepire pensieri più puri e rafforzarsi in quella fede semplice, in cui lui stesso fermamente credeva.

Era persona semplice Zio Antonio, senz’altro unico nel suo genere, che non si lasciava condizionare dal mormorio melenso di certi perbenisti e benpensanti del posto.

Sfortunatamente una rovinosa caduta da cavallo poneva fine alla sua prolifica produzione artistica. Pur non scolpendo più, continuava a pregare nell’accettazione serena dell’infermità che lo aveva colpito. “È il Signore che ha voluto farmi smettere”. Non c’era amarezza nelle sue parole, ma soltanto quella devozione, che aveva caratterizzato l’intera sua vita.

Per anni le opere di zio Antonio, come numi tutelari poste a protezione del luogo e delle persone, sono rimaste là dove il suo artefice le aveva lasciate, quasi a scongiurarne la profanazione e a non comprometterne la sacralità con la loro asportazione, resasi purtroppo necessaria per eludere l’edace aggressione del tempo e dell’uomo.

Perché, allora, non avviare nell’ottica di un’attenta azione di recupero una valorizzazione di queste vere opere d’arte per offrirle con tutto il loro carico emotivo e simbolico ad un possibile fruitore all’interno di un percorso più ampio di turismo emozionale che metta in luce e racconti la bellezza di un capitolo non minore della vita del nostro borgo?

Alfonso Rainone